Pubblico e privato
Non
concepito per illustrare il lavoro delle donne, il testo che Hannah Arendt
dedica al lavoro ci indica un approccio essenziale per guardare al rapporto
dell'essere femminile con il lavoro.
Hannah Arendt rintraccia, attraverso una storia delle origini del concetto
di lavoro, una serie di caratteristiche che costituiscono la distinzione
essenziale, di senso e di valore, tra la sfera pubblica e la sfera privata.
Distinzione che, al di là di tutte le rivalutazioni 'moderne' o
le riscoperte del lavoro privato delle donne, è profondamente radicata
nel sociale e all'interno di ogni individuo e ha fondato tutta una linea
di pensiero sul significato del lavoro per le donne
Simone Weil, nella sua ricerca sui fondamenti del lavoro, si concentra
sul rapporto tra la materia e il corpo, mediata dallo " strumento",
sia esso un attrezzo, una macchina, o la penna che media l'atto dello
scrivere: qualunque intermediario tra il corpo e il mondo.
Alcuni anni fa ho insegnato ad un corso monografico 150 ore sul tema del
rapporto col lavoro. Era il primo su questo argomento. Eterogeneo, caotico,
strapieno, nella libertà di quella disorganizzazione ho ascoltato
storie, testimonianze, pensieri che mi si sono conficcati nella mente
come dei puzzle e che non sono più riuscita a vedere espressi con
tanta chiarezza negli anni seguenti, dopo che ci si è concentrati
all'inseguimento delle "pari opportunità".
Era il tempo della "doppia presenza", della scoperta delle infinite
abilità della donna "giocoliera", acrobata del tempo,
che sa conciliare con mille strategie affetti e lavoro, lavori e ruoli
diversi, affettività ed emancipazione. Era tempo di concettualizzazione
del "modo di produzione femminile", del lavoro informale intese
come trasferimento di servizi materiali, psicologici, di rigenerazione
affettiva, nella dura professionalità del mondo del lavoro. Il
lavoro informale si leggeva in filigrana come tessuto costitutivo e connettivo
della socialità lavorativa. Il problema era come riconoscere, rendere
visibile, concepire, il valore che questo lavoro nel lavoro - se così
si può chiamare la fatica dell'elaborazione quotidiana delle spinte
psicologiche , proprie e altrui, che le donne si trovano a gestire in
tutti i luoghi del vivere, oltre quel lavoro informale di servizi domestici
materiali che ritroviamo in tutti i luoghi di lavoro. Questa informalità,
tessuto di resistenza e subalternità, di complicità e astuzia,
come affrontarlo?
Ci si muoveva in una logica di combinazione, ricomposizione. Come si è
visto, caricaturalmente, nel personaggio di Una donna in carriera, "vincente"
non è più, neanche a livello della percezione di massa,
la donna emancipata, ma la donna "completa", che piange ad una
riunione di affari, è furba come un pirata della finanza, che si
traveste senza "perdersi", che combina l'amore col lavoro, gli
affetti con la carriera. Conciliazione perfetta che solo la rielaborazione
democratica di qualche signore illuminato riesce a mettere in scena, componendo
nella sua testa i dualismi e i conflitti che attraversano i vissuti delle
donne.
Mi avevano colpito, nel corso, soprattutto due cose: da un lato l'attaccamento
agli elementi di subalternità femminile legati al lavoro informale,
proprio nella sua assenza di riconoscimento ufficiale, dall'altro il nomadismo
pendolare tra lavoro domestico e lavoro pubblico, vissuti non come strategie
di sopravvivenza ma come doppia fuga da una duplice schiavitù.
Nei racconti l'abilità di combinazione lasciava piuttosto il posto
a un elemento cupo, oppressivo e claustrofobico, di inchiodamento ad una
gabbia che si chiudeva continuamente su un sogno di libertà. E
lavoro "fuori' rappresentava la libertà rispetto all'informe
prigionia della casa. Ma era vero anche l'inverso. Man mano che una nuova
quotidianità si strutturava, le leggi del sociale sembravano richiudersi
in una nuova prigionia. E il lavoro della casa, soprattutto la maternità,
si presentavano come l'uníca forma nuova di liberazione. Si assisteva
a un pendolarismo senza fine e senza uscita: fuga da una gabbia all'altra
più che felice acrobazia. Le caratteristiche di questo pendolarismo
andavano molto nel senso descritto dalla Harendt. Il mondo degli affetti
veniva vissuto come un cadersi addosso, un luogo informe. Il riconoscimento
affettivo, pur prepotentemente desiderato, non era sufficiente come principio
di identità. E lavoro domestico, il fare e disfare di Penelope
si presentavano come obbligo coercitivo e ingabbiante, peggiorato dall'elemento
di frantumazione dell' identità rappresentato dalla perenne disponibilità
implicíta nel mondo familiare.
Dall'altra parte, in fasi diverse della vita per la stessa donna, o per
donne diverse, i connotati si invertivano. Pur nella diversità
della situazione le stesse caratteristiche di libertà e gli stessi
vissuti di disidentificazione provenivano dal lavoro, dal mondo pubblico.
In genere era proprio dopo una lunga sperimentazione di lavoro esterno
che quest'ultimo assumeva le caratteristiche di una coercizione penosa,
claustrofobica, causa di un vero e proprio sfigura- mento della propria
identità attribuibile alla rigidità delle sue regole, all'
assenza di significatività dei suoi prodotti, processi, relazioni.
Di fronte ad esso, il ritorno a casa assumeva le caratteristiche di riconquista
di uno spazio di libertà e significatività. "Quando
sentivo dire dalle casalinghe che era frustrante non le capivo perchè
per me era una conquista. Non ne potevo più del doppio lavoro,
di un doppio lavoro frustrante".
Prese in questa morsa, sembra che per le donne non ci sia via d'uscita,
poiché mondo privato e mondo pubblico si presentano ugualmente
sfiguranti ed ugualmente necessari. Per ritrovarsi, le donne sembrano
dover fare in modo di sopravvivere rubando significati all'uno e all'altro.
Determinante non sembra tanto la realtà di quella particolare attività
quanto il versante simbolico, pubblico o privato in cui essa si colloca,
non la forma del lavoro a determinare il suo proprio senso ma il significato
che esso prende per quell'individuo in quel particolare momento della
sua vita. Indipendententemente dalla sua realtà o il lavoro è
prolungamento del lavoro privato e cade sotto l'ombra della sua inesistenza,
è lavoro fuori, nella durezza del mondo. Se prevale il significato
domestico, qualunque lavoro si ricopre della informità degli affetti
ma anche delle sue gratificazioni specifiche. Quando si vuole fuggire
da una casa, qualunque lavoro, purché pubblico, è segno
di libertà. Se però prevale il significato "sociale",
esso si connota inevitabilmente come - entrata nella sfera del mondo dell'uomo
di cui il lavoro è la proiezione sociale.
Se è più facile comprendere il senso di inesistenza e inanità
donne dentro il lavoro domestico, la resistenza al lavoro soci forse analizzata
più a fondo.
Come un sogno è prodotto di condensazioni, spostamenti, sovra-determinazioni,
così chi si incontra col lavoro si incontra condensazione: la cristallizzazione
di una certa relazione all'altro trasferita sul mondo. Relazione di un
corpo maschile con altri uomini, con le donne, la natura e le cose. Mondo
dell'omosessualità sublimata maschile.
Secondo Freud il mondo pubblico è nato come punto di unione della
libido omosessuale maschile, sublimata nella meta. Essa richiama, come
suo polo opposto ma necessario, il legame erotico con l'altro sesso, che
garantisce il soddisfacimento pulsionale, formalizzato nella famiglia.
Anche per Freud i due luoghi si oppongono rispettivamente come terreno
della "civiltà" e dell"inciviltà"; L'esistenza
del luogo "incivile" dell'amore permette l'erezione della civiltà,
luogo separato, caratterizzato da sentimenti di tenerezza e amicizia,
sottratto al bisogno e alla dipendenza che sono propri dei legami sessuali.
Il mondo esterno e quello interno sono così già configurati
ne loro costellazione essenziale e, con essi, il destino di chi li abita
e rappresenta.
Se, come bene nota la Harendt, il significato più profondo lavoro
è che il mondo della "vita" si è eretto accanto,
parallelamente e contro quello della "sopravvivenza", come una
"seconda vita" si erge accanto alla vita determinata dalla necessità,
il senso più grande dell'estraneità femminile al mondo del
lavoro deriva da qui. Lavorare è entrare nella seconda vita, nel
mondo dell'individualità maschile, nella relazione sociale che
lega gli uomini tra loro, nata contro il mondo della sopravvivenza e della
specie, delegato alla donna e allo schiavo. E percepirne, ambivalentemente,
il fascino e il fastidio, il significato di negazione del femminile.
E a questo tessuto sommerso che le donne reagiscono: al travestimento
richiesto.
La resistenza delle donne al lavoro è perciò resistenza
a questa sua configurazione profonda, reattività al suo significato
ancestrale. La loro ambivalenza è solo trascrizione fedele di una
realtà.
La "pubblicità' del lavoro, quindi salvezza dall'informità
della vita privata, è garanzia e prezzo della propria necessaria
disidentificazione: un altro corpo, fisico, simbolico e sociale, è
il lavoro. Salvezza e nuova perdita.
Come nel
mondo del sapere la presenza del movimento soggettivo dell'oggetto che
segretamente anima il pensiero illumina l'impianto fantastico d'origine
del pensiero stesso, svela le forme della sua animazione segreta, così
accade per il lavoro: esso viene riportato al grado zero. Se ormai da
anni la "civiltà del lavoro" riceve gli effetti ultimi
delle critiche che segnano una concezione meno riduttiva della auto-produzione/riproduzione
umana, le donne, per la posizione che occupano in questa simbologia, radicalizzano
questa critica ai fondamenti ultimi della concezione dell'idea stessa
di lavoro.
Per gli uomini, soggetti della scissione, è possibile, attraverso
una somma, la ricomposizione. Le donne invece, materia della scissione,
raramente riescono a approdare a un senso di ricomposizione, a una somma
felice. E modo stesso della configurazione di questi territori condanna
chi vive da oggetto simbolizzato, parte del paesaggio, ad essere terra
di conflitto, non soggetto di ricomposizione.
Al massimo, soggetto di trasgressione. Soltanto se subisce un a radicale
" disidentificazione dell' Io, una donna che accede ad un sapere
dell'uomo avrà la possibilità di condividere il piacere
tutto maschile di padroneggiare una natura foggiata a somiglianza della
donna, cioè passiva, inerte e cieca".
Questo è quanto scrive Evelyn Fox-Keller
a proposito dell'accesso alla scienza, costruita su immagini di relazione
soggetto/oggetto contrapposte e sovrapposte al maschile/femminile. Ma
per il lavoro questo è ancora più vero e si consuma in un
processo più oscuro e violento.
Nel lavoro infatti la scissione oppositiva tra maschile e femminile, che
si sovrappone a quella tra corpo e pensiero, si ridispone in modo differente.
Se lavorare, come pensare, è immaginarsi attivi, l'attività
della mente diviene qui l'agire di un corpo. Un corpo che lavora una materia.
Se l'attività è sublimazione di una pulsione attiva che
il femminile deve rimuovere per sentirsi tale, qualunque attività
conoscitiva e lavorativa, fortemente connotata come attività, trasgredisce
la consegna della femminilità come destino. E chiama in campo una
pulsione inevitabilmente rappresentata come virile. Il travestimento simbolico
del corpo richiesto alla donna che lavora, qualunque sia l'attività
concreta esercitata, tenendo presente prioritariamente questo aspetto
di partecipazione a un sociale/agorà opposto al mondo degli affetti,
è richiesto da questo versante simbolico del lavoro prima che dalle
norme sociali reali.
Nell'esercizio del pensiero il travestimento richiesto sembra meno forte.
Se pur nato in contrapposizione al corpo femminile, nel mondo del pensiero,
della scrittura, la pressione sociale è meno incombente. In un'attività
che può essere esercitata in solitudine sembrano annidarsi identità
intermedie, neutri possibili. Per quanto alla lunga illusoria e, alla
fine, perdente, 'l'androginia della mente" ha fornito condizioni
di immaginazione al cui interno esercitare la scrittura o altre attività
intellettuali o artistiche, lingue di terra sulle quali aggrapparsi nella
costruzione di un sé non sfigurato.
Nella civiltà del lavoro le fantasie lasciano spazio alla pura
guerra. Il mondo del lavoro è più vicino fantasticamente
al corpo virile che lo fonda insieme alla lotta e alla guerra. La relazione
d'oggetto con l'origine, corpo femminile o corpo/natura da sottomettere,
è più chiaramente violenta.
Ritroviamo qui il testo di Simone Weil. Il significato del lavoro come
agire di un corpo.
La domanda diventa allora: cos'è l'attività umana, come
essa si distacca dal corpo che lo pensa e che relazioni col mondo e con
l'altro ne fondano la socialità?
Come si immagina il mondo su cui agisce, la natura che trasforma?
Il
ritmo del corpo
Nel
testo della Weil l'immagine del lavoro è legata al "ritmo"
di un corpo. Questa immagine contiene la fatica, il fare e un rapporto
con la conoscenza.
La sensazione del legame del lavoro con il proprio corpo è sempre
molto viva per le donne sia quando il lavoro viene percepito come alienato,
nel senso della propria lontananza da sé, sia quando è percepito
con piacere.
Il rapporto fisico tra sé e il mondo è sempre là.
"Il suo alfabeto penetra nella mano a forza di tracciare le lettere."
Mi
aveva molto colpita, nei racconti delle donne, l'attaccamento/affezione
al posto fisico, a una particolare macchina o posizione. Me lo ricordavo
anche degli uomini. Ma qui era come se il posto si facesse involucro,
pelle attorno a un corpo. Un'operazione a una certa macchina o meglio
la sensazione che quell'operazione trasmette- va, dava adito a soddisfazione,
a senso di sé o a frantumazione e "senso di umiliazione".
C'era qualcosa di fisicamente percepibile,
quasi un corpo a corpo con un'attività per portarla a significare
seguendo altre leggi. Una presenza pregnante, vicina alla ricerca di una
individualità quasi fisica attraverso l'agire su una materia.
Ricomporre , secondo il "desiderio d'essere" delle donne, non
può che voler dire ripercorrere i significati possibili che le
forme immaginarie delle attività umane hanno preso per sé
e ad un certo punto di una storia individuale comunque segnata da consegne
universali. E stare a vedere se l'attività può nascere su
una fantasia non virile. Qui è l'intreccio difficile da districare.
Qui sta l'infinita ambiguità e molteplicità dei significati
del lavoro per una donna.
Questo è il bisogno di Simone Weil quando si arrovella su un'immagine
dell'agire dove si possa immaginare una 'immobilità al centro,
un ritmo, una specie di passività, "azioni che non siano schermo
ma tramite verso il reale", "uscita dall'immaginario" e
"leve verso una maggiore realtà".
E' per questo che il comparire di una cesura che ha dato alle donne soggettività
e consapevolezza di sé segna una soglia cruciale e discriminante.
La ricerca sul lavoro e sul suo senso può partire da altri bisogni
e con altre possibilità di scoperta.
L'esito frequente che il prodotto di un'esperienza fortemente creativa
tra donne sia la ricerca di un lavoro qualsiasi, apparentemente e non
solo apparentemente insignificante. Esito nefasto?
Lo stesso lavoro può essere per una donna semplicemente aggiunta
di fatica al ruolo domestico che, un destino di povertà decreta
per lei, una fuga da un luogo divenuto insopportabile o un segno di ricerca
e di autonomia, di spazio e di senso per sé. Quindi: ambiguità,
pluralità di sensi, plurisignificanza, contro la sua apparente
concretezza e materialità. Il lavoro come molte altre cose concretissime
ed oggettive viene usato dalle donne, per così dire, fluidamente.
Sembra essere la condizione fantastica di fondo e il momento della vita
in cui il lavoro si presenta/lo si cerca a costituirne il significato
predominante.
E sempre in un contesto contrappositivo, come se ogni lavoro valesse soprattutto
come occasione: per qualcosa e contro qualcosa. Occasione sempre mancata,
è bene saperlo. E per eccesso. C'è spesso qualcosa di eccessivo
nell'investimento delle donne nel lavoro. Poichè ad esso, pur nella
conflittualità che lo rende il meno adatto a fornire un fondamento
di identità si richiede invece esistenza, rispecchiamento, senso
di sé, valorizzazione, riconoscimento. Sempre troppo. E tra il
riconoscimento che si cerca e quello che il lavoro è in grado di
dare vi è sempre un abisso.
Tuttavia questi riconoscimenti sproporzionati e questi investi- menti
accaniti non sono solo fughe irrealistiche. Sono ricerca dei fondamenti
di dignità individuale nel mondo. Nel desiderio e nel piacere della
fatica quasi fisica dei lavoro c'è lo stacco violento da un corpo
impastato che fatica a distinguersi dagli oggetti e l'uscita da un destino
femminile vissuto come informe. C'e il desiderio di percepire un corpo
che si autodefinisce e sente limitato incontrando la resistenza di una
materia esterna a sé, la liberazione dal dominio dell'immaginazione,
dall'invasione dei fantasmi del mondo interno. Un incontro con l'alterità.
Si possono capire allora le oscillazioni tra il bisogno di riconoscimento,
la sua tipologia, l'economia delle gratificazioni cercate, e il contradditorio
rapporto con il riconoscimento economico.
Qual è la misura di sé? Quasi tutte le misure oggettive
significano altro per le donne che ne raccontano. In questo lungo viaggio
verso il sentirsi in sé e con sé mutano continuamente di
senso e di posizione significante.
Nel lavoro è come se solo dal profondo di un percorso delle storie
individuali, dal punto di innesto dell'attività lavorativa nella
loro economia, scaturisse il significato. Un significato sempre pronto
a mutare. Le collocazíoni e i significati obiettivi del lavoro
vengono dunque continuamente deformati da bisogni di identità così
forti da rendere irriconoscibili i primi. Scopriremo così il senso
di una serie di apparenti assurdità.
Ricordo la disperazione di un'amica, sociologa brasiliana, che non si
raccapezzava nelle interviste alle operaie di una fabbrica di San Paolo:
le operaie della catena, in situazioni assolutamente simili davano interpretazioni
del loro lavoro tra loro totalmente opposte in cui, tra l'altro, il peso
della condizione materiale, ai limiti dell'intollerabilità, spariva
dietro la crucialità dei vissuto di libertà dato o meno
dal lavorare, in relazione ad un privato ancora più pesante. Cosí
per alcune il lavoro alla catena era veramente il lavoro alla catena,
per altre un inizio di libertà.
E altre decisioni assumono allora senso: le dimissioni al vertice della
carriera, le entrate e uscite dal lavoro, gli abbandoni di carriere per
ricerche trasversali di altri lavori, le energie che si moltiplicano e
vanno a picco in situazioni che dovrebbero garantire il contrario... e
così via.
E' un nomadismo profondo, quello delle donne nel lavoro. Come se oggi
non si dessero molte altre strade che questa piuttosto che restare prigioniere
in ambiti divenuti mostruosi, invivibili, per le spaccature su cui si
fondano e che riproducono, camminare sui crinali del senso usando, nel
viaggio verso di sé, i cocci del mondo altrui e i pezzi rimasti
in vita dei propri mondi. Lo scopo in fondo, ci ricordano le donne, non
è quello di produrre oggetti, ma quello di 'comporre una vita'.
NOTE
l. S. Freud,
Il disagio della civiltà. "Opere di Sigrnund
Freud", Bollati Boringhieri, Torino, 1967-1980, vol. 10.
2. Evelyn Fox-Keller, Il genere e la scienza, Garzanti,
Milano, 1987.
3. M. Bateson, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano, 1992.
Testo tratto dal libro di Paola Melchiori, Crinali,
La Tartaruga edizioni, 1995
Il libro è richiedibile all'Università delle Donne: universitadelledonne@tin.it
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