Un testo a più significati

di Paola Melchiori

Hannah Arendt da Vita activa


"Che un'attività sia svolta in pubblico o in privato non è certo una questione indifferente. Evidentemente il carattere della sfera pubblica deve cambiare a seconda delle attività che vi sono ammesse, ma in una larga misura l'attività stessa muta pure la sua natura.
Secondo il pensiero greco, la propensione degli uomini ad organizzarsi politicamente non solo è differente ma è in diretto contrasto con l'associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oikia) e nella famiglia...

 


La polis si distingueva dalla casa in quanto si basava sull'eguaglianza di tutti i cittadini, mentre la vita familiare era il centro della più stretta ineguaglianza.
Che la sopravvivenza individuale fosse compito dell'uomo e la sopravvivenza della specie compito della donna era evidente, ed entrambe queste funzioni naturali... erano soggette alla stessa urgenza di vita. La comunità naturale della casa era quindi frutto di necessità e la necessità determinava tutte le attività che vi si compivano.
Il dominio della polis, al contrario, era la sfera della libertà e, se c'era una relazione tra queste due sfere, la limitazione delle sfere di vita nella casa era evidentemente il presupposto della libertà nella polis.
Nella concezione greca, costringere la gente con la violenza, comandare piuttosto che persuadere, erano modi di trattare prepolitici caratteristici della vita fuori della polis, di quella domestica e familiare, dove il capo famiglia dettava legge con incontestato potere dispotico, o di quella degli imperi barbari dell'Asia, il cui dispotismo era spesso paragonato all'organizzazione domestica.
Essere liberi significava tanto non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro, quanto non essere da parte pro- pria al comando. Significava non governare né essere governati. Entro il dominio della casa dunque non esisteva libertà.
Vivere una vita interamente privata significa prima di tutto essere privati di cose essenziali a una vita veramente umana: essere privati della realtà che ci deriva dall'essere visti e sentiti dagli altri, essere privati di un rapporto "oggettivo" con gli altri, quello che nasce dall'essere con loro in relazione e da loro separati con l'intermediario rio di un mondo comune di cose, privati della possibilità di acquistare qualcosa di più duraturo che la vita stessa. La privazione implicita nella vita privata consiste nell'assenza degli altri: per gli altri, l'uomo privato non appare e quindi è come se non esistesse. Qualunque cosa faccia rimane senza significato e senza conseguenza per le altre persone e ciò che a lui importa è privo di interesse per loro.
il mondo, come ogni in - tra, mette in relazione e nello stesso tempo separa gli uomini.
La dimensione pubblica, come il mondo comune, ci raccoglie insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda.
Ogni attività compiuta in pubblico può raggiungere una superiorità mai conseguita in privato, e la superiorità , per definizione, ha bisogno della presenza di altri, la quale, a sua volta, necessita della formalità del pubblico, costituito da propri pari, e che non può essere la casuale presenza familiare dei propri eguali o inferiori.
E rispetto a questa significatività multipla del dominio pubblico che A termine 'privato', nel suo originario senso privativo, ha senso."
 
Simone Weil da Cahiers I

"Lavoro: il patto originario dell'uomo con la natura, dell'anima con il suo corpo.
Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato all'altro mediante un lavoro. Un lavoro a cui il corpo prende sempre parte, come quando si impara l'alfabeto di una lingua straniera, tale alfabeto deve penetrare nella mano a forza di tracciare le lettere...
Mutare il rapporto fisico tra sé e il mondo come l'operaio, attraverso l'apprendistato, muta il rapporto fisico tra sé e lo strumento. (E marinaio tra sé e la nave).


Lo strumento fa perdere una forma della sensibilità, la sostituisce con un'altra. Non si avverte la propria fatica, si avverte la fresa poggiare sul pezzo, come essa poggia. Tutti i mestieri riposano su trasferimenti di sensibilità.
Strumento: bilancia tra l'uomo e l'universo. Le forze della natura superano infinitamente... il marinaio sulla sua barca ha un peso uguale a quello delle forze infinite dell'oceano.
A ogni istante il pilota con la debole forza dei suoi muscoli sul timone e sui remi, debole ma indirizzata, fa equilibrio a quella enorme massa d'aria e acqua.
Bastone del cieco. Barca: il vero marinaio arriva a percepire ciò che concerne la sua barca con la stessa immediatezza con cui percepisce i segni trasmessi dal proprio corpo (cfr. anche Conrad).
Vi è responsabilità, invenzione, ecc., in breve azione, ovunque i mezzi possono divenire, per l'uomo che ne dispone, come prolungamenti del proprio corpo, capaci di trasmettere dei segni alla sua anima. Qui risiede la vera natura del lavoro.
Abitudine, abilità, trasferimento della coscienza in un oggetto diverso dal proprio corpo.
Che questo oggetto sia l'universo, il sole, le stelle, che si senta lo spazio. "

 


Pubblico e privato

 

Non concepito per illustrare il lavoro delle donne, il testo che Hannah Arendt dedica al lavoro ci indica un approccio essenziale per guardare al rapporto dell'essere femminile con il lavoro.
Hannah Arendt rintraccia, attraverso una storia delle origini del concetto di lavoro, una serie di caratteristiche che costituiscono la distinzione essenziale, di senso e di valore, tra la sfera pubblica e la sfera privata. Distinzione che, al di là di tutte le rivalutazioni 'moderne' o le riscoperte del lavoro privato delle donne, è profondamente radicata nel sociale e all'interno di ogni individuo e ha fondato tutta una linea di pensiero sul significato del lavoro per le donne


Simone Weil, nella sua ricerca sui fondamenti del lavoro, si concentra sul rapporto tra la materia e il corpo, mediata dallo " strumento", sia esso un attrezzo, una macchina, o la penna che media l'atto dello scrivere: qualunque intermediario tra il corpo e il mondo.

Alcuni anni fa ho insegnato ad un corso monografico 150 ore sul tema del rapporto col lavoro. Era il primo su questo argomento. Eterogeneo, caotico, strapieno, nella libertà di quella disorganizzazione ho ascoltato storie, testimonianze, pensieri che mi si sono conficcati nella mente come dei puzzle e che non sono più riuscita a vedere espressi con tanta chiarezza negli anni seguenti, dopo che ci si è concentrati all'inseguimento delle "pari opportunità".
Era il tempo della "doppia presenza", della scoperta delle infinite abilità della donna "giocoliera", acrobata del tempo, che sa conciliare con mille strategie affetti e lavoro, lavori e ruoli diversi, affettività ed emancipazione. Era tempo di concettualizzazione del "modo di produzione femminile", del lavoro informale intese come trasferimento di servizi materiali, psicologici, di rigenerazione affettiva, nella dura professionalità del mondo del lavoro. Il lavoro informale si leggeva in filigrana come tessuto costitutivo e connettivo della socialità lavorativa. Il problema era come riconoscere, rendere visibile, concepire, il valore che questo lavoro nel lavoro - se così si può chiamare la fatica dell'elaborazione quotidiana delle spinte psicologiche , proprie e altrui, che le donne si trovano a gestire in tutti i luoghi del vivere, oltre quel lavoro informale di servizi domestici materiali che ritroviamo in tutti i luoghi di lavoro. Questa informalità, tessuto di resistenza e subalternità, di complicità e astuzia, come affrontarlo?
Ci si muoveva in una logica di combinazione, ricomposizione. Come si è visto, caricaturalmente, nel personaggio di Una donna in carriera, "vincente" non è più, neanche a livello della percezione di massa, la donna emancipata, ma la donna "completa", che piange ad una riunione di affari, è furba come un pirata della finanza, che si traveste senza "perdersi", che combina l'amore col lavoro, gli affetti con la carriera. Conciliazione perfetta che solo la rielaborazione democratica di qualche signore illuminato riesce a mettere in scena, componendo nella sua testa i dualismi e i conflitti che attraversano i vissuti delle donne.
Mi avevano colpito, nel corso, soprattutto due cose: da un lato l'attaccamento agli elementi di subalternità femminile legati al lavoro informale, proprio nella sua assenza di riconoscimento ufficiale, dall'altro il nomadismo pendolare tra lavoro domestico e lavoro pubblico, vissuti non come strategie di sopravvivenza ma come doppia fuga da una duplice schiavitù. Nei racconti l'abilità di combinazione lasciava piuttosto il posto a un elemento cupo, oppressivo e claustrofobico, di inchiodamento ad una gabbia che si chiudeva continuamente su un sogno di libertà. E lavoro "fuori' rappresentava la libertà rispetto all'informe prigionia della casa. Ma era vero anche l'inverso. Man mano che una nuova quotidianità si strutturava, le leggi del sociale sembravano richiudersi in una nuova prigionia. E il lavoro della casa, soprattutto la maternità, si presentavano come l'uníca forma nuova di liberazione. Si assisteva a un pendolarismo senza fine e senza uscita: fuga da una gabbia all'altra più che felice acrobazia. Le caratteristiche di questo pendolarismo andavano molto nel senso descritto dalla Harendt. Il mondo degli affetti veniva vissuto come un cadersi addosso, un luogo informe. Il riconoscimento affettivo, pur prepotentemente desiderato, non era sufficiente come principio di identità. E lavoro domestico, il fare e disfare di Penelope si presentavano come obbligo coercitivo e ingabbiante, peggiorato dall'elemento di frantumazione dell' identità rappresentato dalla perenne disponibilità implicíta nel mondo familiare.
Dall'altra parte, in fasi diverse della vita per la stessa donna, o per donne diverse, i connotati si invertivano. Pur nella diversità della situazione le stesse caratteristiche di libertà e gli stessi vissuti di disidentificazione provenivano dal lavoro, dal mondo pubblico.
In genere era proprio dopo una lunga sperimentazione di lavoro esterno che quest'ultimo assumeva le caratteristiche di una coercizione penosa, claustrofobica, causa di un vero e proprio sfigura- mento della propria identità attribuibile alla rigidità delle sue regole, all' assenza di significatività dei suoi prodotti, processi, relazioni. Di fronte ad esso, il ritorno a casa assumeva le caratteristiche di riconquista di uno spazio di libertà e significatività. "Quando sentivo dire dalle casalinghe che era frustrante non le capivo perchè per me era una conquista. Non ne potevo più del doppio lavoro, di un doppio lavoro frustrante".
Prese in questa morsa, sembra che per le donne non ci sia via d'uscita, poiché mondo privato e mondo pubblico si presentano ugualmente sfiguranti ed ugualmente necessari. Per ritrovarsi, le donne sembrano dover fare in modo di sopravvivere rubando significati all'uno e all'altro.
Determinante non sembra tanto la realtà di quella particolare attività quanto il versante simbolico, pubblico o privato in cui essa si colloca, non la forma del lavoro a determinare il suo proprio senso ma il significato che esso prende per quell'individuo in quel particolare momento della sua vita. Indipendententemente dalla sua realtà o il lavoro è prolungamento del lavoro privato e cade sotto l'ombra della sua inesistenza, è lavoro fuori, nella durezza del mondo. Se prevale il significato domestico, qualunque lavoro si ricopre della informità degli affetti ma anche delle sue gratificazioni specifiche. Quando si vuole fuggire da una casa, qualunque lavoro, purché pubblico, è segno di libertà. Se però prevale il significato "sociale", esso si connota inevitabilmente come - entrata nella sfera del mondo dell'uomo di cui il lavoro è la proiezione sociale.
Se è più facile comprendere il senso di inesistenza e inanità donne dentro il lavoro domestico, la resistenza al lavoro soci forse analizzata più a fondo.
Come un sogno è prodotto di condensazioni, spostamenti, sovra-determinazioni, così chi si incontra col lavoro si incontra condensazione: la cristallizzazione di una certa relazione all'altro trasferita sul mondo. Relazione di un corpo maschile con altri uomini, con le donne, la natura e le cose. Mondo dell'omosessualità sublimata maschile.
Secondo Freud il mondo pubblico è nato come punto di unione della libido omosessuale maschile, sublimata nella meta. Essa richiama, come suo polo opposto ma necessario, il legame erotico con l'altro sesso, che garantisce il soddisfacimento pulsionale, formalizzato nella famiglia. Anche per Freud i due luoghi si oppongono rispettivamente come terreno della "civiltà" e dell"inciviltà"; L'esistenza del luogo "incivile" dell'amore permette l'erezione della civiltà, luogo separato, caratterizzato da sentimenti di tenerezza e amicizia, sottratto al bisogno e alla dipendenza che sono propri dei legami sessuali.
Il mondo esterno e quello interno sono così già configurati ne loro costellazione essenziale e, con essi, il destino di chi li abita e rappresenta.
Se, come bene nota la Harendt, il significato più profondo lavoro è che il mondo della "vita" si è eretto accanto, parallelamente e contro quello della "sopravvivenza", come una "seconda vita" si erge accanto alla vita determinata dalla necessità, il senso più grande dell'estraneità femminile al mondo del lavoro deriva da qui. Lavorare è entrare nella seconda vita, nel mondo dell'individualità maschile, nella relazione sociale che lega gli uomini tra loro, nata contro il mondo della sopravvivenza e della specie, delegato alla donna e allo schiavo. E percepirne, ambivalentemente, il fascino e il fastidio, il significato di negazione del femminile.
E a questo tessuto sommerso che le donne reagiscono: al travestimento richiesto.
La resistenza delle donne al lavoro è perciò resistenza a questa sua configurazione profonda, reattività al suo significato ancestrale. La loro ambivalenza è solo trascrizione fedele di una realtà.
La "pubblicità' del lavoro, quindi salvezza dall'informità della vita privata, è garanzia e prezzo della propria necessaria disidentificazione: un altro corpo, fisico, simbolico e sociale, è il lavoro. Salvezza e nuova perdita.

Come nel mondo del sapere la presenza del movimento soggettivo dell'oggetto che segretamente anima il pensiero illumina l'impianto fantastico d'origine del pensiero stesso, svela le forme della sua animazione segreta, così accade per il lavoro: esso viene riportato al grado zero. Se ormai da anni la "civiltà del lavoro" riceve gli effetti ultimi delle critiche che segnano una concezione meno riduttiva della auto-produzione/riproduzione umana, le donne, per la posizione che occupano in questa simbologia, radicalizzano questa critica ai fondamenti ultimi della concezione dell'idea stessa di lavoro.
Per gli uomini, soggetti della scissione, è possibile, attraverso una somma, la ricomposizione. Le donne invece, materia della scissione, raramente riescono a approdare a un senso di ricomposizione, a una somma felice. E modo stesso della configurazione di questi territori condanna chi vive da oggetto simbolizzato, parte del paesaggio, ad essere terra di conflitto, non soggetto di ricomposizione.
Al massimo, soggetto di trasgressione. Soltanto se subisce un a radicale " disidentificazione dell' Io, una donna che accede ad un sapere dell'uomo avrà la possibilità di condividere il piacere tutto maschile di padroneggiare una natura foggiata a somiglianza della donna, cioè passiva, inerte e cieca".
Questo è quanto scrive Evelyn Fox-Keller a proposito dell'accesso alla scienza, costruita su immagini di relazione soggetto/oggetto contrapposte e sovrapposte al maschile/femminile. Ma per il lavoro questo è ancora più vero e si consuma in un processo più oscuro e violento.
Nel lavoro infatti la scissione oppositiva tra maschile e femminile, che si sovrappone a quella tra corpo e pensiero, si ridispone in modo differente. Se lavorare, come pensare, è immaginarsi attivi, l'attività della mente diviene qui l'agire di un corpo. Un corpo che lavora una materia. Se l'attività è sublimazione di una pulsione attiva che il femminile deve rimuovere per sentirsi tale, qualunque attività conoscitiva e lavorativa, fortemente connotata come attività, trasgredisce la consegna della femminilità come destino. E chiama in campo una pulsione inevitabilmente rappresentata come virile. Il travestimento simbolico del corpo richiesto alla donna che lavora, qualunque sia l'attività concreta esercitata, tenendo presente prioritariamente questo aspetto di partecipazione a un sociale/agorà opposto al mondo degli affetti, è richiesto da questo versante simbolico del lavoro prima che dalle norme sociali reali.
Nell'esercizio del pensiero il travestimento richiesto sembra meno forte. Se pur nato in contrapposizione al corpo femminile, nel mondo del pensiero, della scrittura, la pressione sociale è meno incombente. In un'attività che può essere esercitata in solitudine sembrano annidarsi identità intermedie, neutri possibili. Per quanto alla lunga illusoria e, alla fine, perdente, 'l'androginia della mente" ha fornito condizioni di immaginazione al cui interno esercitare la scrittura o altre attività intellettuali o artistiche, lingue di terra sulle quali aggrapparsi nella costruzione di un sé non sfigurato.
Nella civiltà del lavoro le fantasie lasciano spazio alla pura guerra. Il mondo del lavoro è più vicino fantasticamente al corpo virile che lo fonda insieme alla lotta e alla guerra. La relazione d'oggetto con l'origine, corpo femminile o corpo/natura da sottomettere, è più chiaramente violenta.
Ritroviamo qui il testo di Simone Weil. Il significato del lavoro come agire di un corpo.
La domanda diventa allora: cos'è l'attività umana, come essa si distacca dal corpo che lo pensa e che relazioni col mondo e con l'altro ne fondano la socialità?
Come si immagina il mondo su cui agisce, la natura che trasforma?

Il ritmo del corpo

Nel testo della Weil l'immagine del lavoro è legata al "ritmo" di un corpo. Questa immagine contiene la fatica, il fare e un rapporto con la conoscenza.
La sensazione del legame del lavoro con il proprio corpo è sempre molto viva per le donne sia quando il lavoro viene percepito come alienato, nel senso della propria lontananza da sé, sia quando è percepito con piacere.
Il rapporto fisico tra sé e il mondo è sempre là. "Il suo alfabeto penetra nella mano a forza di tracciare le lettere."

Mi aveva molto colpita, nei racconti delle donne, l'attaccamento/affezione al posto fisico, a una particolare macchina o posizione. Me lo ricordavo anche degli uomini. Ma qui era come se il posto si facesse involucro, pelle attorno a un corpo. Un'operazione a una certa macchina o meglio la sensazione che quell'operazione trasmette- va, dava adito a soddisfazione, a senso di sé o a frantumazione e "senso di umiliazione". C'era qualcosa di fisicamente percepibile,
quasi un corpo a corpo con un'attività per portarla a significare seguendo altre leggi. Una presenza pregnante, vicina alla ricerca di una individualità quasi fisica attraverso l'agire su una materia.
Ricomporre , secondo il "desiderio d'essere" delle donne, non può che voler dire ripercorrere i significati possibili che le forme immaginarie delle attività umane hanno preso per sé e ad un certo punto di una storia individuale comunque segnata da consegne universali. E stare a vedere se l'attività può nascere su una fantasia non virile. Qui è l'intreccio difficile da districare. Qui sta l'infinita ambiguità e molteplicità dei significati del lavoro per una donna.
Questo è il bisogno di Simone Weil quando si arrovella su un'immagine dell'agire dove si possa immaginare una 'immobilità al centro, un ritmo, una specie di passività, "azioni che non siano schermo ma tramite verso il reale", "uscita dall'immaginario" e "leve verso una maggiore realtà".
E' per questo che il comparire di una cesura che ha dato alle donne soggettività e consapevolezza di sé segna una soglia cruciale e discriminante. La ricerca sul lavoro e sul suo senso può partire da altri bisogni e con altre possibilità di scoperta.
L'esito frequente che il prodotto di un'esperienza fortemente creativa tra donne sia la ricerca di un lavoro qualsiasi, apparentemente e non solo apparentemente insignificante. Esito nefasto?
Lo stesso lavoro può essere per una donna semplicemente aggiunta di fatica al ruolo domestico che, un destino di povertà decreta per lei, una fuga da un luogo divenuto insopportabile o un segno di ricerca e di autonomia, di spazio e di senso per sé. Quindi: ambiguità, pluralità di sensi, plurisignificanza, contro la sua apparente concretezza e materialità. Il lavoro come molte altre cose concretissime ed oggettive viene usato dalle donne, per così dire, fluidamente.
Sembra essere la condizione fantastica di fondo e il momento della vita in cui il lavoro si presenta/lo si cerca a costituirne il significato predominante.
E sempre in un contesto contrappositivo, come se ogni lavoro valesse soprattutto come occasione: per qualcosa e contro qualcosa. Occasione sempre mancata, è bene saperlo. E per eccesso. C'è spesso qualcosa di eccessivo nell'investimento delle donne nel lavoro. Poichè ad esso, pur nella conflittualità che lo rende il meno adatto a fornire un fondamento di identità si richiede invece esistenza, rispecchiamento, senso di sé, valorizzazione, riconoscimento. Sempre troppo. E tra il riconoscimento che si cerca e quello che il lavoro è in grado di dare vi è sempre un abisso.
Tuttavia questi riconoscimenti sproporzionati e questi investi- menti accaniti non sono solo fughe irrealistiche. Sono ricerca dei fondamenti di dignità individuale nel mondo. Nel desiderio e nel piacere della fatica quasi fisica dei lavoro c'è lo stacco violento da un corpo impastato che fatica a distinguersi dagli oggetti e l'uscita da un destino femminile vissuto come informe. C'e il desiderio di percepire un corpo che si autodefinisce e sente limitato incontrando la resistenza di una materia esterna a sé, la liberazione dal dominio dell'immaginazione, dall'invasione dei fantasmi del mondo interno. Un incontro con l'alterità.
Si possono capire allora le oscillazioni tra il bisogno di riconoscimento, la sua tipologia, l'economia delle gratificazioni cercate, e il contradditorio rapporto con il riconoscimento economico.
Qual è la misura di sé? Quasi tutte le misure oggettive significano altro per le donne che ne raccontano. In questo lungo viaggio verso il sentirsi in sé e con sé mutano continuamente di senso e di posizione significante.
Nel lavoro è come se solo dal profondo di un percorso delle storie individuali, dal punto di innesto dell'attività lavorativa nella loro economia, scaturisse il significato. Un significato sempre pronto a mutare. Le collocazíoni e i significati obiettivi del lavoro vengono dunque continuamente deformati da bisogni di identità così forti da rendere irriconoscibili i primi. Scopriremo così il senso di una serie di apparenti assurdità.
Ricordo la disperazione di un'amica, sociologa brasiliana, che non si raccapezzava nelle interviste alle operaie di una fabbrica di San Paolo: le operaie della catena, in situazioni assolutamente simili davano interpretazioni del loro lavoro tra loro totalmente opposte in cui, tra l'altro, il peso della condizione materiale, ai limiti dell'intollerabilità, spariva dietro la crucialità dei vissuto di libertà dato o meno dal lavorare, in relazione ad un privato ancora più pesante. Cosí per alcune il lavoro alla catena era veramente il lavoro alla catena, per altre un inizio di libertà.
E altre decisioni assumono allora senso: le dimissioni al vertice della carriera, le entrate e uscite dal lavoro, gli abbandoni di carriere per ricerche trasversali di altri lavori, le energie che si moltiplicano e vanno a picco in situazioni che dovrebbero garantire il contrario... e così via.
E' un nomadismo profondo, quello delle donne nel lavoro. Come se oggi non si dessero molte altre strade che questa piuttosto che restare prigioniere in ambiti divenuti mostruosi, invivibili, per le spaccature su cui si fondano e che riproducono, camminare sui crinali del senso usando, nel viaggio verso di sé, i cocci del mondo altrui e i pezzi rimasti in vita dei propri mondi. Lo scopo in fondo, ci ricordano le donne, non è quello di produrre oggetti, ma quello di 'comporre una vita'.

NOTE

l. S. Freud, Il disagio della civiltà. "Opere di Sigrnund Freud", Bollati Boringhieri, Torino, 1967-1980, vol. 10.
2. Evelyn Fox-Keller, Il genere e la scienza, Garzanti, Milano, 1987.
3. M. Bateson, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano, 1992.


Testo tratto dal libro di Paola Melchiori, Crinali, La Tartaruga edizioni, 1995

Il libro è richiedibile all'Università delle Donne: universitadelledonne@tin.it